Scienza & Medicina

Cure mediche e qualità della vita: una nuova frontiera

Questo argomento è stato trattato
nell'assemblea straordinaria dei soci di A.M.I.C.I. Lombardia del 20 novembre 1999.
Abbiamo chiesto al relatore di inviarci un riassunto di quanto detto.

INTRODUZIONE

Fino a non molti anni fa, il rapporto tra medico e paziente è stato caratterizzato da una situazione di totale dipendenza del paziente, che  si affidava passivamente al medico il quale decideva e ‘imponeva’ le cure. Questo tipo di rapporto aveva le sue radici agli albori della civiltà, quando il processo di cura era rivestito da un’aura di magia e di mistero. L’antenato del medico era infatti lo stregone o sciamano, che utilizzava nel curare il paziente, oltre ai rimedi derivanti dall’osservazione della natura, come le piante medicinali, anche le forze derivanti da un suo ‘rapporto privilegiato’ con il mondo soprannaturale.

In epoca moderna, se da un lato lo sviluppo della scienza ha tolto l’aura di mistero e di superstizione alle cure mediche, dall’altro il ruolo del paziente rispetto al medico è cambiato assai poco, perché il medico diventava il depositario delle conoscenze scientifiche, ed il paziente si affidava a lui con fiducia cieca, demandandogli interamente le scelte di cura, che il medico operava ‘per il suo bene’.

Tutto questo ha subito, negli ultimi anni, una profonda rivoluzione. Si è andato infatti affermando il concetto di un paziente non più oggetto passivo delle cure, ma protagonista del processo di cura. In altre parole si è riconosciuto al paziente non solo il diritto di sapere i vantaggi e svantaggi delle possibili opzioni diagnostiche e terapeutiche, ma anche di partecipare al processo di decisione sul tipo di indagini da eseguire e di cura da adottare, e anche il diritto di rifiutare di sottoporvisi. Questo principio di non obbligatorietà della cura è stato anche sancito in legge.

Questa ‘rivoluzione’ ha avuto numerose conseguenze. Infatti per poter partecipare con cognizione di causa al processo di decisione, il paziente deve conoscere vantaggi e svantaggi dei diversi metodi di diagnosi e di cura. Di qui la necessità di informare il paziente, ad ogni tappa del processo diagnostico-terapeutico, circa i benefici attesi da un esame diagnostico o da una terapia, ma anche circa i rischi a questi connessi, in modo che il paziente possa, in piena libertà, decidere se accettare o rifiutare la procedura diagnostica o la terapia che il medico gli propone. Questo orientamento trova espressione sintetica nel cosiddetto ‘consenso informato’: prima di intraprendere un accertamento diagnostico invasivo od una terapia, il medico è tenuto a spiegare al paziente di che cosa si tratta. Al termine del processo di spiegazione, medico e paziente firmano congiuntamente un modulo che attesta che il medico ha dato le spiegazioni richieste, e che il paziente ha capito e dà il proprio consenso all’atto diagnostico o terapeutico.

Questo ha a sua volta avuto delle conseguenze sia per il medico che per il paziente. Infatti, il medico ha dovuto imparare a spiegare al paziente in termini comprensibili ma precisi, i possibili diversi  tipi di esame o di cura che gli propone, spiegando per ciascuna alternativa i pro e i contro. Questo è un approccio ‘faticoso’, che  richiede tempo, disponibilità e una notevole capacità ‘didattica’: non è infatti sempre facile spiegare in termini semplici i presupposti di diagnosi e terapie. Un’altra conseguenza è stata l’obbligo, per il medico, di dire sempre la verità al paziente, anche se si tratta di rivelare l’esistenza di una malattia incurabile. Ciò è particolarmente difficile in un paese come l’Italia, dove da sempre vigeva l’uso di non dire al paziente la verità, quando egli fosse affetto, per esempio, da un tumore maligno.

Anche per il paziente questo cambiamento di rapporto ha avuto delle conseguenze profonde. Oltre al caso dei tumori maligni e delle malattie incurabili in genere, per i quali la impossibilità del medico di mentire circa la diagnosi impedisce al paziente di ignorare una realtà angosciante, anche in situazioni meno drammatiche, come la scelta se fare o non fare un esame diagnostico od una terapia, il paziente si trova spesso in imbarazzo, perché è culturalmente impreparato a fare certe scelte, che in passato ha sempre delegato al medico. Inoltre, l’atto della firma del ‘consenso informato’ mette il paziente dinanzi ad una assunzione di corresponsabilità cui egli non è abituato.

Questo profondo cambiamento del rapporto medico-paziente ha avuto riflessi importanti anche sul modo di valutare gli effetti delle terapie. Infatti, il considerare il paziente non più come oggetto delle terapie ma come soggetto attivo nel processo di cura, ha come conseguenza che il risultato delle cure non va più valutato ‘dal punto di vista del medico’, e cioè solo sulla base della normalizzazione degli esami e dei sintomi o del prolungamento della sopravvivenza, ma anche ‘dal punto di vista del paziente’, cioè  tenendo presente l’effetto che la malattia e le cure hanno sul paziente inteso come individuo inserito in un contesto sociale e culturale, con bisogni, aspirazioni, relazioni umane e affettive. In altre parole, emerge la necessità di valutare l’impatto che la malattia e le cure hanno sulla ‘qualità di vita’ del paziente.

CHE COSA E’ LA QUALITA’ DI VITA

 Il concetto di ‘qualità di vita’ è molto antico. Epicuro, nel IV secolo avanti Cristo, scrisse: “Una salda conoscenza dei bisogni inclina a ricondurre ogni assenso o diniego al benessere del corpo ed alla piena serenità dell’animo, poiché questo è il fine della vita felice. A questo fine noi rivolgiamo ogni nostra azione, per allontanarci dalla sofferenza e dall’apprensione”.

Nonostante questo, il concetto di qualità di vita come entità misurabile, e della misurazione della qualità di vita come strumento utilizzabile in sociologia, in medicina ed in altri campi è relativamente recente. Una definizione dell’OMS del 1948 dice: “Qualità di vita è la percezione soggettiva che un individuo  ha della propria posizione nella vita, nel contesto di una cultura e di un insieme di valori nei quali egli vive, anche in relazione ai propri obiettivi, aspettative e preoccupazioni”. In modo più pragmatico ed operativo, la qualità di vita può essere descritta da una serie di aree o dimensioni della esperienza umana che riguardano non solo le condizioni fisiche ed i sintomi, ma anche la capacita' di un individuo di funzionare, dal punto di vista fisico, sociale, psicologico e di trarre soddisfazione da quanto fa, in rapporto sia alle proprie aspettative che alla propria capacita' di realizzare ciò che desidera.

Prima e più che in medicina, il concetto di qualità di vita è stato applicato in sociologia, spesso in riferimento ai problemi ambientali ed al deterioramento delle condizioni di vita nelle città, senza che si giungesse ad una definizione precisa di tale concetto.

 Per gli usi medici, è stato introdotto il concetto di ‘qualità di vita correlata alla salute’, definita come “L’insieme degli aspetti qualitativi della vita dell’individuo correlabili ai domini della malattia e della salute, e pertanto modificabili dalla medicina”. A sua volta, la definizione di Salute data dalla stessa OMS è:  “Completo benessere fisico, psicologico e sociale e non solamente di assenza di malattia”
 

 PERCHE’ MISURARE LA QUALITA’ DI VITA

 Per comprendere le ragioni per cui la misurazione della qualità della vita può avere importanti implicazioni per i medici, per i pazienti ed anche per gli organismi di controllo come il Ministero della Sanità, occorre ricordare brevemente come oggi si valutano gli effetti di una terapia. Lo strumento usato quasi sempre è il cosiddetto trial randomizzato e controllato. Esso consiste nel selezionare un certo numero di pazienti con caratteristiche ben definite, e nell’assegnare, a sorte, metà di questi pazienti il nuovo farmaco da studiare, e all’altra metà una terapia ‘standard’ o un placebo. I trials migliori vengono eseguiti ‘in  doppio cieco’, in modo tale cioè che il medico non sa a quali pazienti viene somministrato il nuovo farmaco e a quali la terapia standard, e anche i pazienti non sanno se ricevono il nuovo trattamento o quello standard. Ciò è fatto per impedire che il giudizio del medico e del paziente sull’efficacia della terapia venga influenzato. Alla fine dello studio il ‘codice’ viene aperto, e i risultati vengono valutati statisticamente. Questo metodo ha il pregio della obbiettività, e produce risultati assai affidabili e riproducibili. Tuttavia, per motivi di praticità, la valutazione dei risultati dei trials viene fatta prendendo in considerazione solo un numero limitato di parametri, cioè, ad esempio, la sopravvivenza e l’andamento nel tempo di alcuni esami di laboratorio o di alcuni sintomi. Il suo limite è però rappresentato dal fatto che i risultati dimostrano l’efficacia di una terapia nelle condizioni migliori possibili, condizioni che non necessariamente si riproducono quando lo stessa terapia viene applicata ‘sul campo’, nella pratica quotidiana. Ad esempio, è possibile che un determinato trattamento si riveli molto efficace nei trials, dove i pazienti sono fortemente motivati e seguiti da vicino dal medico, e molto meno nella pratica quotidiana, quando il paziente è lasciato a sé stesso, e può trovare la terapia difficile da mettere in pratica o fastidiosa.

Negli ultimi anni si  è andata affermando l’esigenza di avere informazioni anche circa l’efficienza di una terapia, e cioè sui suoi risultati al di fuori dei trials randomizzati e controllati. Questa modalità di ricerca prende il nome di ‘outcomes research’ o ‘ricerca degli esiti’, ed è volta a determinare gli effetti di una terapia sullo stato di salute globale del paziente, sulla sua capacità di funzionare normalmente, oltre che sulla durata della sopravvivenza. Vi è infatti una crescente consapevolezza che solo la misurazione diretta degli esiti finali indotti dalla terapia permetta di stabilire il reale valore terapeutico e la reale utilità clinica di un farmaco.

In questo contesto la misurazione dello stato di salute, spesso complementare, talora alternativa alla misura della sopravvivenza,  ha assunto negli ultimi decenni un significato clinico di notevole  rilievo. I progressi sociali, scientifici e tecnologici degli ultimi decenni hanno infatti permesso di controllare la maggior parte delle patologie acute e di aumentare in modo rilevante la aspettativa di vita delle popolazioni dei paesi maggiormente industrializzati. L'intervento sulle malattie croniche e degenerative e' divenuto quindi il principale obiettivo dei programmi di gestione sanitaria nei paesi occidentali. In questa prospettiva, l'obiettivo terapeutico primario nella maggior parte dei casi non e' più rappresentato dall'incremento della sopravvivenza, quanto dal conseguimento del miglior stato di salute possibile.

Da quanto detto, si deduce che la misurazione della qualità della vita può avere importanti applicazioni:

? Innanzitutto, indipendentemente dalle terapie, essa può aiutare a valutare l’impatto della malattia sulla sensazione soggettiva di benessere dei pazienti.
? Inoltre essa può aiutare a valutare l’efficacia di una strategia terapeutica nei trials randomizzati e controllati. In questi studi, la misurazione della qualità di vita inserisce una nuova dimensione nella valutazione dell’efficacia dei trattamenti, e può essere molto utile nel decidere quale, tra due terapie di pari efficacia, risulti meno sgradevole per il paziente.
?  Lo stesso discorso può essere fatto per la valutazione dell’efficienza di una terapia nell’applicazione quotidiana.
? Ancora, essa può fornire informazioni utili a medici e pazienti circa la prognosi di una malattia e soprattutto sull’esito atteso di una terapia.
? Infine, essa può entrare in maniera decisiva nella valutazione del rapporto costo/efficacia di una terapia. Ciò è particolarmente importante in un’epoca in cui l’attenzione ai costi della sanità sta diventando sempre più pressante, ed in qualche caso ossessiva.

COME E QUANDO MISURARE LA QUALITA’ DI VITA

 La  qualità di vita è un insieme di immagini e di percezioni mentali che, in quanto tale, non può essere rilevato direttamente. Inoltre, per definizione, essa è soggettiva, e quindi la sua valutazione richiede domande dirette al paziente. Idealmente, la maniera migliore per porre domande al paziente sarebbe l’intervista. Tuttavia questa non è praticamente realizzabile, sia per motivi pratici che per la necessità di analizzare e confrontare dati provenienti da pazienti diversi, ed anche dallo stesso paziente in tempi diversi. Perciò si ricorre a questionari sviluppati appositamente. Questi questionari possono essere sintetici o analitici. Quelli sintetici sono costituiti da una sola domanda, e mirano ad ottenere una valutazione generale molto semplice della qualità di vita del paziente. I questionari analitici valutano diversi domini ovvero dimensioni o aree della esperienza umana che possano abbracciarne molteplici aspetti, generalmente connessi allo stato funzionale del soggetto, esaminato sotto diversi profili (fisico, di ruolo, cognitivo, emozionale, sociale). I questionari analitici sono di due tipi, generici o specifici per malattia. I primi tendono a valutare lo stato generale del paziente, i secondi fanno riferimento più specificamente ai disturbi o alle limitazioni che il paziente può subire a causa di una particolare malattia.

L’elaborazione dei questionari è un processo lungo, difficile e costoso. Questo si deve al fatto che essi debbono rispondere a esigenze difficilmente conciliabili tra loro. Infatti essi debbono essere facilmente comprensibili (problemi connessi al grado di istruzione, educazione, età e lucidità dei pazienti). Debbono essere anche semplici e brevi (problema del declino dell’attenzione), e infine debbono essere riproducibili, specifici e sensibili.

 Un altro problema nello sviluppo dei questionari è quello della specificità culturale: infatti, tra i diversi gruppi etnici esistono differenze culturali che alterano la scala dei valori, e che debbono essere tenute presenti nell’adattare un questionario ad una popolazione differente da quella in cui è stato originariamente sviluppato (traslazione e non traduzione). Per questo motivo i questionari sviluppati in altri Paesi non possono essere semplicemente tradotti in Italiano.

 Benchè ci possano essere notevoli variazioni, il questionario tipico è composto di 25-35 domande. Le risposte alle domande possono essere di tipo sì/no oppure prevedere una serie di risposte ‘a scala’, ad esempio: per niente, un poco, abbastanza, parecchio, molto.

 Nella pratica quotidiana, i questionari vengono dati da compilare ai pazienti al momento del loro arrivo all’ambulatorio, nell’attesa di essere visitati. I questionari debbono essere compilati dal paziente senza interventi da parte del personale sanitario, che potrebbero influenzare le  risposte. In generale, i questionari vengono somministrati al primo incontro con il paziente, prima di eseguire accertamenti diagnostici o terapie, La somministrazione viene ripetuta ogni volta che si siano verificati eventi legati alla malattia che abbiano determinato modificazioni delle condizioni cliniche del paziente, e dopo interventi di terapia.

 A CHE PUNTO SIAMO, E QUALE SARA’ IL FUTURO

La misurazione della qualità di vita in medicina è una disciplina relativamente giovane. In tutti i Paesi, gli sforzi  si sono finora concentrati nel definire la metodologia per lo sviluppo degli strumenti di misura, e nello sviluppare strumenti adatti alle più varie condizioni patologiche. Negli ultimi anni, è iniziata l’applicazione dei questionari in diverse popolazioni di pazienti, e si stanno raccogliendo i primi dati.

La prossima tappa sarà l’applicazione sistematica della misurazione della qualità di vita come complemento della valutazione dell’impatto delle malattie sull’individuo,  e dell’effetto delle diverse terapie.

Il  passo successivo sarà l’utilizzo della misurazione della qualità di vita come elemento essenziale nella valutazione della utilità clinica delle terapie. In quest’ottica la qualità di vita giuocherà probabilmente un ruolo importante nella valutazione del rapporto costo-beneficio delle terapie, e verrà utilizzata dalle Autorità regolatorie allo scopo di definire la rimborsabilità o meno di una terapia da parte dello Stato o degli enti assicurativi.
 

Prof. Roberto De Franchis
Servizio di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva
Istituto di Medicina Interna
Ospedale Policlinico di Milano